Archivi del mese: aprile 2011

Buon compleanno, Paperblog!

In occasione del primo anniversario dalla creazione e il lancio della piattaforma di Paperblog, pubblico l’intervista che ho rilasciato come blogger facente parte di questo interessante progetto.  In pratica, Paperblog è una piattaforma  che si nutre della partecipazione di alcuni blogger prescelti, i cui post selezionati, fanno in modo di creare un vero e proprio magazine on line.

Così facendo si viene a costituire un nuovo modo di fare informazione, con punti di vista fra i più disparati e gli argomenti coperti raggiungono un numero considerevole, tale da coprire qualsiasi notizia o evento, permettendo altresì ai vari blogger di avere una più che discreta visibilità oltre alla possibilità di interagire con altri colleghi.

La mia collaborazione con Paperblog è stata sin qui sicuramente e proficua e interessante, e ho avuto l’onore di essere stato scelto come autore del giorno, in occasione del mio post sulla scomparsa di Maria Schneider.

Da ricordare che nel corso di un anno, la piattaforma ha raggiunto l’obiettivo di un milione di visitatori mensili.

Ecco il testo dell’intervista:

Paperblog:  Innanzitutto, chi c’é dietro Segreti Dall’Alveare?

Segreti Dall’Alveare: Dietro il mio blog non c’è altro che la mia persona, ovvero Luca Mangogna. Ho voluto dare inizio a questo progetto per dare sfogo alla mia professionalità (sono laureato in giornalismo) sino a questo momento, purtroppo, parecchio inespressa.

P.: Da quanto tempo possiedi un blog e perché hai deciso di aprirne uno?

SdA: Posseggo il blog dall’inizio dell’anno, da gennaio. La decisione di aprirla è venuta perchè appunto, avvertivo la necessità di possedere uno spazio tutto mio, dove poter esprimere in totale libertà le mie opinioni ed esporre in maniera più compiuta la mia esperienza di anni di studio di giornalismo e la mia capacità nello scrivere. Ed è ovvio che la visibilità che si ottiene oggi sul web, è difficile ottenerla in qualche altra parte che non sia la televisione.

P.: Da dove trai ispirazione per gli articoli del tuo blog?

SdA: É naturale che per tenere sempre aggiornato un blog, sia necessario giocoforza tenersi aggiornato. Dunque l’ispirazione mi viene dalle consuete rassegne stampa che contraddiscono le mie giornate, passando dai giornali (generici, locali, politici, e sportivi), alla televisione (telegiornali e televideo) a internet (webzine di ogni genere e specie). Da lì è facile trovare ogni giorno almeno uno spunto che mi consenta di trarre un’ottima ispirazione per poter postare nel mio blog.

P.: Quando smetti i panni del blogger, di cosa ti occupi?

SdA: Beh, si potrebbe ben dire che non smetto mai i panni del blogger. Come già detto, infatti, ho deciso di aprire un blog proprio per avere la visibilità e l’opportunità di mettere in luce la mia professionalità e le mie capacità. Sono infatti laureato in giornalismo, ma tuttora giacio nel limbo dei free lance, senza che abbia una collaborazione continuativa che mi permetta di essere un professionista o un pubblicista a tempo pieno.

P.: Un pregio e un difetto di Paperblog.

SdA: Il pregio maggiore di Paperblog è quello di dare visibilità ai migliori blogger, ma – al di là di qualsiasi discorso “egoistico” – è quello di apparire un vero e proprio giornale, assolutamente valido quanto sui generis, servendosi del collage dei pezzi di questi blogger. Un difetto può nascere dal fatto che, avvalendosi di autori di varia natura ed entità, nonchè caratteristiche e ideali, sia foriero di contraddizioni o ripetizioni. Ma nella natura del progetto credo che fosse stato messo in conto e nella mente dei creatori ci sia l’idea di migliorare questo aspetto.

P.: E per finire, una domanda su temi scottanti: un’impasse italiana, il nucleare a Fukushima, la nuova guerra in Libia: quali scenari per i prossimi mesi?

SdA: L’impasse italiana è proprio come la si descrive: un’impasse. Siamo fermi alle polemiche e divorati dalla burocrazia. Inutile accorpare accuse che sfocierebbero nel più bieco dei qualunquismi, ma da governo e opposizioni non si fa altro che lotta sulle parole, salvo mettersi d’accordo quando si tratta di spartire torte o aumentarsi l’indennità. La fine della cosiddetta Prima Repubblica anziché semplificare ha portato a un’esasperazione totale che sta sfociando inevitabilmente nella totale disaffezione dei cittadini alla politica e nello squallido militantismo cieco di altri. L’affaire che riguarda la riforma giudiziario è tipico in questo senso: una riforma che non potrebbe andare in porto che non in almeno 4/6 anni (se non mai) mette in scena un balletto di polemiche che nasconde i reali problemi e le reali necessità del paese.

Il disastro di Fukushima era estremamente difficile prevedere, così come lo tsunami e il terremoto che hanno colpito e devastato il Giappone. Di tutte le centrali giapponesi quella di Fukushima era la meno sicura ed era pure vicina alla chiusura, ma la tragedia ha provocato questa situazione drammatica sta tenendo il mondo sotto shock. Non si tratta nemmeno di porre in questione l’uso del nucleare, perchè tutto è stato provocato da un disastro naturale. Ma, per esempio, in Italia, sarebbe davvero sciocco affidarsi al nucleare con le risorse naturale e rinnovabili di cui godiamo nel nostro territorio.

La guerra in Libia non vede come principale responsabile Gheddafi, ma i governanti europei, in testa gli italiani da Craxi a Berlusconi, che gli hanno aperto le porte. Il suo potere decisionale anche in seno al suo popolo è così aumentato esponenzialmente col suo potere internazionale e siamo arrivati oggi a una nuova guerra. Che purtroppo non finirà presto.


La bestia più feroce, pt. 2

Come purtroppo molti di voi sapranno, Vittorio non ce l’ha fatta.

Il suo corpo è stato ritrovato impiccato in una casa abbandonata a Gaza.

Le parole che mi vengono nel commentare questa ennesima tragedia sono al minimo, tale è lo sgomento e l’amarezza che mi assale nel riferire di quanta crudeltà sia capace l’uomo e di quanto ingiusto sia stato il destino di questo ragazzo di trentasei anni che ha combattuto per la pace e la libertà in uno dei territori più devastati di tutto il pianeta.

Ha sacrificato la sua vita perchè i palestinesi possano avere condizioni umani, mentre lui è stato ucciso e trattato in maniera disumana. Da riconoscere c’è che senz’altro i suoi assassini oltre a essere delle ignobili bestie non faranno sicuramente della maggioranza del popolo che lui ha sempre strenuamente difeso, il popolo per cui Arrigoni si è sempre battuto.

La sua famiglia, segnatamente sua madre, Egidia Beretta sindaco del comune di Bulciago (LC), ha espresso il suo dolore, ma anche l’orgoglio di quanto ha fatto in vita suo figlio.

Le sue spoglie arriveranno in Italia lunedì, perchè oltre alla barbaria subita, bisogna pure constatare la mancanza di sensibilità delle autorità israeliane che per nessun motivo aprono le frontiere di Gaza nel fine settimana.

Un’ultima amarezza per questa storia penosa senza lieto fine.

Un’ennesima constatazione sulla gratuita crudeltà delle bestia più feroce del pianeta Terra, l’uomo.


La bestia più feroce

Vittorio Arrigoni è un uomo che ha dedicato la sua vita alla causa palestinese. Trentasei anni, è un fervido attivista dei diritti umani e un giornalista che collabora col Manifesto, Peacereporter, e AgoraVox.

Inoltre, essendo sempre impegnato a raccontare quello che accade in zone a rischio, tiene un blog, Guerrilla Radio, dove informa costantemente quello che avviene sotto i suoi occhi, narrando di quanto crudeltà è spesso testimone.

Ebbene oggi Arrigoni ha dovuto constatare questa crudeltà non solo in qualità di osservatore, ma purtroppo in questa occasione si vede costretto a vestire i panni della vittima. É stato infatti rapito da un gruppo ribelle di salafiti, una cellula palestinese che fa riferimento ad Al-Qaeda, che minaccia di ucciderlo se il governo palestinese di Hamas non rilascerà dalle sue carceri i loro compagni di battaglia.

La notizia lascia attoniti e sconcertati, non solo perchè si rischia di contare un’altra ennesima vittima in nome di questi criminali ignobili, ma per la natura della persona, che si è sempre battuta perchè nel mondo non venisse mai versata una sola goccia di sangue per qualunque causa, senza fare distinzione di schierament0.

L’amarezza che ne consegue, sperando per la vita del povero Vittorio e augurandosi che venga presto liberato, è quella che Arrigoni forse avrebbe fatto meglio a dedicare la propria vita, il proprio talento, il suo spirito umanitario e di abnegazione con esseri che non gli avrebbero mai portato questi pericoli. Come tigri, leoni, serpenti, giaguari.

Perchè questa triste vicenda è l’ennesima vicenda che porta alla luce di come la bestia più stupida, feroce e pericolosa sia proprio l’uomo. Una razza che non ha meritato l’attenzione di Arrigoni e forse non merita nemmeno un elemento come Arrigoni fra i propri membri.

Tieni duro Vittorio.


S’è spenta una luce

La luce che s’è spenta è quella che ha illuminato la vita di Sidney Lumet, il grande regista americano che è scomparso sabato, all’età di 86 anni, nella sua casa di Manhattan.

La luce di Lumet non era presente solo nel nome, ma brillava soprattutto nel talento di un autore che in una carriera lunga cinquant’anni ha regalato una serie di titoli che hanno letteralmente fatto la storia del cinema di questi anni. Una carriera che è stata tardivamente premiata dai membri dell’Academy che solo nel 2005 lo hanno premiato con il tanto agognato Oscar, per l’appunto alla carriera.

Impossibile elencare e parlare di tutti i suoi film (in tutto sono 46) ma doveroso ricordarne almeno i più importanti.

Innanzitutto è d’obbligo menzionare il suo splendido esordio, fatto nel 1957 con La parola ai giurati, un film in unico atto nel quale vengono messi seriamente in dubbio i principi fondamentali che reggono le fondamenta del sistema giudiziario statunitense. Un’opera nella quale era facile scorgere il talento di Lumet, qui al servizio di un’eccezionale cast di attori, guidato da un formidabile Henry Fonda.

Gli anni 60 del regista americano scivolano via con qualche titolo interessante, primo fra tutti Uno sguardo dal ponte (1962), tratto dall’omonimo dramma di Arthur Miller, con uno straordinario Raf Vallone.

Ma è nella maturità degli anni 70 che la geniale di mano di Lumet, accompagnata e seguita dai migliori sceneggiatori dell’epoca (fra cui Paddy Chayefsky) si rivela al suo meglio. Il primo capolavoro è Serpico (1973), indimenticabile j’accuse contro il sistema poliziesco devastato dalla corruzione (tema ripreso in altri due film, Il principe della città, 1981, e Prove apparenti, 1996) e anche ritratto di una generazione e di un’epoca che scivola via verso la progressiva perdita di valori e pervasa di ipocrisia in tutti i suoi strati sociali, a cominciare dalla politica. Un Al Pacino in stato di grazia inoltre conferma il talento di Lumet nel guidare e lasciar sfogare al proprio meglio gli attori a sua disposizione.

Centrale nella sua filmografia è l’attacco che Lumet dispone ai mass media e al loro potere strumentalizzatore e interessato: sempre Al Pacino (al fianco di John Cazale) è il protagonista dell’indimenticabile Quel pomeriggio di un giorno da cani (1975), un autentico cult nel quale vengono messe in scena la disorganizzazione della polizia, la generazione distrutta dal Vietnam e le speculazioni dei media. Addirittura preveggente oltre ogni misura è invece Quinto Potere (1976) dove vengono messe in luce tutte le storture e le manipolazioni dei network televisivi, pronti a sacrificare le vite dei propri protagonisti in nome dell’audience. Faye Dunaway, William Holden e Peter Finch (Oscar postumo) sono la conferma più lampante di quanto Lumet amasse mettersi al servizio dei più grandi attori, e quanto loro abbiano dato il meglio sotto la sua direzione.

La produzione degli anni 80 è altalenante e, oltre al già citato Il principe della città con un Treat Williams nella sua miglior interpretazione che ribadisce del suo feeling con gli attori, da ricordare vi è senz’altro Il verdetto (1982) dove un avvocato (Paul Newman) sul viale del tramonto cerca di recuperare dignità attraverso una causa di forte impegno civile. Un ritorno alle origini sul sistema giudiziario come ai tempi di La parola ai giurati.

Il decennio successivo scivola via con titoli minori e altri impegnati ma non del tutto riusciti (il già menzionato Prove apparenti, Terzo Grado, Un’estranea fra noi), ma il vero colpo di coda lo consegna con il suo ultimo titolo, il vigoroso thriller Onora il padre e la madre del 2007, autentica lotta fra fratelli titani, Philip Seymour Hoffman ed Ethan Hawke, senza dimenticare il loro genitore, un granitico Albert Finney. Si tratta di un dramma familiare che è costruito attraverso la decostruzione temporale fornita dai flashback, un’atmosfera pervasa di un cupo pessimismo e un finale straordinario quanto privo di speranza.

Il perfetto testamento di un grande autore che ha fatto dell’impegno civile la sua battaglia, che con l’andare degli anni ha visto perdere sempre più colpi, sino a sfociare nel più estremo pessimismo. Che forse, analizzando tutti i suoi titoli, era forse la caratteristica più evidente.

Ed è un doppio calice amaro che ci tocca bere adesso con la scomparsa di un gigante come Lumet, del quale ci resta solo la sua testimonianza di regista che attraverso i suoi film ha illustrato un cinquantennio di storia americana.

Considerando il lascito della sua filmografia è comunque un amaro che si beve con partecipe gusto.


L’uomo dei sogni

Adesso per gli italiani diventerà la pietra di paragone, l’uomo che simboleggia e proietta i propri sogni di gloria, perché lui ce l’ha fatta.

Cesare Geronzi, 76 anni, ha vinto al SuperEnalotto senza nemmeno giocare. Il banchiere che colleziona poltrone e partecipazioni adesso può vantarsi di aver riscosso la più alta liquidazione mai ricevuta, forse nella storia dell’umanità, comparata al lavoro fatto.

Infatti, dopo un solo anno di lavoro, il finanziere romano, dopo le dimissioni dalla guida di Generali, ha ricevuto una buonuscita di ben 16 milioni di euro, la stessa ricevuta dal suo predecessore, Antoine Bernheim. Ma in otto anni di lavoro.

Però evidentemente il suo contributo all’azienda è stato tale da giustificare una tale resa. Infatti in Borsa nonappena s’è saputo della sua defezione, il titolo Generali ha avuto una formidabile ascesa, col titolo che è salito sino al 4,7% in più del suo valore alla partenza delle contrattazioni.

Non solo, ma secondo Guido Giubergia, presidente della società di investimento Ersel e del comitato governance di Assogestioni, «Chiunque sia parte del mercato non può che recepire positivamente questa decisione, il +5% del titolo parla da solo», tanto per sottolineare la stima di cui Geronzi già nutriva nell’ambiente.

Inoltre, è d’uopo ricordare che il buon Cesare è stato iscritto nel registro degli indagati del crac Parmalat, uscendone assolto per l’accusa di estorsione, ma essendo ancora in attesa di giudizio da parte della Cassazione per l’accusa di bancarotta.

Come se non bastasse su di lui pende una condanna di otto anni di reclusione da parte della procura di Roma per frode riguardo l’emissione e collocamento dei bond Cirio tramite Capitalia, di cui era presidente, mentre è pure coinvolto nel caso Telecom per la frode fiscale operata dalla lussemburghese Bell (controllata da Hopa, la merchant bank di Emilio Gnutti partecipata anche da Geronzi).

Ma si sa che in Italia chi viene accusato dalla magistratura, anziché vederselo diminuire, si vede accresciuto il proprio credito, che sia attivo nel campo della finanza, dell’imprenditoria o della politica.

E il suo credito, nel caso specifico, è aumentato sino a incassare 16 milioni per un solo anno di modesto e disastroso lavoro per Generali.

Un’altra palese dimostrazione di come la meritocrazia sia oggi nel nostro paese pura utopia.

Ed è per questo che Geronzi ha sedici milioni di motivi per essere indicato come l’uomo dei sogni dall’italiano medio.


Quanto pesa una poltrona

É davvero interessante, una volta di più, notare di quanto la politica, in questi tempi di dura crisi e repressione economica, sia così vicina all’esaudire le richieste del proprio indotto, non lesinando spese e cercando di dare il meglio ai propri dipendenti. Beati loro.

Questo, almeno, si evince dalle stravaganti spese messe a registro dalla Regione Sicilia, che più di ogni altro ente amministrativo, soddisfa al meglio le esigenze dei propri lavoratori, siano essi politici, dirigenti o quant’altro.

Così per festeggiare il Natale, la suddetta Regione, spende 75mila euro in varie forniture, perchè da veri cristiani è giusto non badare a spese. E chissà com’erano buoni quei panettoni costati in tutto 3mila418 euro.

In Sicilia poi tutti tengono alla forma, ed è normale che si lavora in Regione si debba avere un orologio con il logo ne certifichi il prestigio. Poco male che questi orologi costino ai contribuenti 18mila euro.

Eppure per gli amministratori e i politici regionali non dev’essere facile sostenere una vita di responsabilità, stress e pressioni. Per questo ognuno di loro ha diritto a una sedia ergonomica del valore di più di 500 euro l’una, per una spesa totale di quasi 6mila euro, ed è naturale che, lavorando in condizioni simili, i piedi dolgono più che a operai, casalinghe e commercianti. E a una sedia che vale 500 euro, mi sembra giusto abbinare un poggiapiedi che costi almeno 100 euro e un costo che sfonda il tetto dei 5mila euro.

Se poi vi pare poco che la Regione si doti di un mobile bar che valga più di 4mila euro, si vede che non capite il peso delle istituzioni e quanto sia necessario tale mobile al sostentamento e alla buona riuscita delle sedute dei nostri governanti.

I politici, lo si dice da sempre, sono attaccati col mastice alle loro poltrone, ed è comprensibile se si pensa che queste poltrone abbiano un costo totale che arriva a sfiorare le 12milaeuro in totale. Ed è bene che si veda nella maniera più chiara possibile e onde evitare qualsiasi equivoco, è d’uopo che due lampade costino ai contribuenti più di seicento euro.

E cosa volete che sia una libreria dal valore di più di 23mila euro?

Nella videorubrica di Lucia Russo e del Quotidiano di Sicilia, linkato a fine post, avrete nel dettaglio più completo tutte queste assurde spese fatte dalla Regione Sicilia, che pesano in maniera non indifferente nelle tasche di noi cittadini.

Totalmente inermi ad assistere a questo insensato sfoggio di lusso e superfluo che ci viene fatto sotto il naso e del quale ci rendiamo beffardamente complici e finanziatori.

Almeno adesso sappiamo in concreto quanto ci costa una poltrona. E perchè i politici sono così restii a lasciarle.

 

 


Terza età

Umberto Veronesi è stata una delle menti più illuminati e degli scienziati italiani più apprezzati al mondo, ha salvato migliaia di vite come oncologo, ha ricevuto ben 12 lauree honoris causa e dirige dal 1994 l’Istituto Europeo di Oncologia.

É stato inoltre uno dei ministri della Salute più competenti di questi ultimi anni e solo la brevità del suo mandato (14 mesi) gli ha impedito di agire con più decisione e fare delle riforme necessarie per il sistema sanitario italiano.

Tutto questo per ribadire la profonda stima che merita quest’uomo, che ha passato da un pezzo gli 85 anni.

Ma c’è qualcosa in queste grandi menti, che scatta appena si esauriscono le batterie dell’illuminazione. E parte, come in ogni altro comune essere umano, la stanchezza e il rallentamento dovuto all’arrivo incessante della terza età.

Non mi spiego altrimenti la sua battaglia agguerrita (da oncologo!) a favore dell’istituzione delle centrali nucleari in Italia, in qualità di presidente dell’Agenzia per la sicurezza nucleare.

«Senza nucleare l’Italia è un paese morto», afferma Veronesi, che in una recente intervista a La Stampa si dice stimolato dalla conflittualità e di conoscere alla perfezioni i metodi di prevenzioni e di cura dovuti in caso di contaminazioni radioattive. Che non ci sarebbero comunque se queste centrali non verrebbero mai alla luce.

Quando si parla di scorie, dice che non ci saranno problemi perchè i siti per lo smaltimento non toccheranno l’Italia. Problemi di altri, insomma.

Ma della sua battaglia pro-nucleare di parla da mesi, dalla sua nomina avvenuta a novembre.

L’ultima uscita che mi ha profondamente sconcertato riguarda invece il ciclismo e il doping.

Nell’intervista concessa ieri alla Gazzetta dello Sport, si lancia in lodi sperticati per questo sport bistrattato.

«Date fiducia al ciclismo, garantisco io» afferma Veronesi. Ovviamente non è questo che mi sconcerta. Alla domanda del giornalista sul doping, il luminare prosegue: «Me ne sono occupato (di doping, ndr) anni fa come Ministro della Sanità senza trovare la via d’uscita. Sinceramente non ho una soluzione. Credo che sia una malattia sociale legata all’abuso di farmaci. Viviamo in un mondo che si aggrappa alle medicine anche quando non servono. A volte mi chiedo se non converrebbe liberalizzare il doping mettendo al bando solo ciò che fa davvero male (che cosa? l’eroina, la cocaina, la metanfetamina? ndr). Prendete l’Epo: chi assicura che faccia male? (forse qualsiasi ematologo? ndr). Chi va in montagna per 15 giorni ottiene gli stessi effetti (se lo dice il professore, ndr). Se il problema è etico e vogliamo mettere tutti sullo stesso piano, si può pensare di liberalizzare. Da liberale convinto, ho un approccio meno latino e più pragmatico: noi abbiamo il diritto, non il dovere alla salute».

Spaventoso. Non ho parole per questa sua chiosa finale, un oncologo di fame mondiale che esprime un concetto simile mi dà il voltastomaco.

Blanda la replica di Petrucci, presidente del Coni, assente quella di Pier Bergonzi, il giornalista che l’ha intervistato.

Forse per rispetto alla terza età galoppante di Veronesi.


La teoria dell’eterno ritorno

A vederlo a prima vista non si direbbe proprio, a sentirlo parlare e a conoscerlo nemmeno tanto, ma dev’essere senz’altro così.

Il suo carattere burbero nasconde invece, evidentemente, un profondo travaglio interiore che lo rende introspettivo e filosofo, che agisce per non pensare troppo.

Sto parlando di Maurizio Zamparini e del suo ascendente nietszcheano, perchè di altro non si può parlare se non della sua infinita coazione a ripetere che perseguita a eseguire cacciando e richiamando un allenatore dopo l’altro.

Nell’esporre la teoria dell’eterno ritorno, Nietszche afferma che: «Tutte le cose diritte mentono. Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un circolo­­­­» e in Così Parlo Zarathustra sviluppa in maniera più specifica il pensiero secondo il quale tutto ciò che è stato vissuto lo sarà in futuro e viceversa. Evidentemente è per non sfuggire a questo arcano dogma del filosofo tedesco che Zamparini non smentisce mai se stesso.

L’ultimo capolavoro del presidentissimo palermitano è infatti, come già ampiamente noto, l’allontanamento di Serse Cosmi dopo soli 35 giorni alla guida del sodalizio rosanero e la conseguente richiamata di Delio Rossi, a sua volta esonerato poco più di un mese fa.

«Ho richiamato il vecchio medico» asserisce con ironia il plenipotenzario proprietario del Palermo, fra ironia e autocompiacimento. Cacciato per un 0-7 casalingo e richiamato dopo 0-4 esterno, sperando che il buon Delio, nella prossima sconfitta abbia almeno l’onore di segnare almeno una rete ed evitare così un nuovo licenziamento.

«Credo che come associazione allenatori dovremmo fare un monumento a Zamparini, intanto perché ha dato un altro stipendio e poi perché, nel frattempo, ha permesso a Rossi di riposarsi e di recuperare energie, prima di rimetterlo al lavoro», afferma con sagace ironia Renzo Ulivieri, presidente dell’ Associazione Allenatori.

In venticinque anni in cui è nel mondo del calcio Zamparini ha avuto fra le mani i migliori tecnici e il solo Novellino è riuscito a scampare il licenziamento, forse soltanto perchè ha avuto l’occasione di fuggire in tempo.

La verità più vera e più amara è che tifosi palermitani, ammaliati dagli strombazzi del loro presidente che parla sempre (e a vanvera) di grandi obiettivi, con questa (non)programmazione sono rassegnati a vedere una squadra che sarà spesso bella, giovane e divertente, ma che al momento di spiccare il volo si vedrà le ali tarpate.

Non dalla sfortuna, non dagli arbitri, e nemmeno dalle squadre più ricche e più forti. Ma dal suo presidente.

Al quale gli stessi tifosi saranno comunque estremamenti grati per averli tirati fuori da decenni di anonimato e aver portato i rosanero nell’èlite nazionale.

Consapevoli ugualmente che con Zamparini più di così non è possibile salire.


Opinioni matematiche

Terminate le due settimane più lunghe per i tifosi di Milan e Inter, con la serata che ha segnato il trionfo dei rossoneri per tre reti a zero, mettendo a frutto una supremazia interrotta solo a tratti dalle fiammate nerazzurre, quello che rimane, oltre al rafforzato primato degli uomini di Allegri, è una considerazione curiosa che viene da alcuni dati statistici pubblicati in questi giorni dalla Gazzetta dello Sport.

I giornalisti della rosea sono stati stremati forse più degli stessi tifosi dalla lunga attesa e hanno cercato di riempire questo lungo intervallo con una serie interminabili di racconti, opinioni, pronostici e, appunto, statistiche.

Le statistiche di tutti i derby contengono spesso al loro interno tutta la storia delle squadre coinvolte, a partire dai tempi lontani della fondazione per arrivare a quelli di oggi. Vengono così contemplate univocamente anche gli incontri che hanno preceduto l’istituzione del campionato a girone unico (creato nel 1929-30), le amichevoli, le partecipazioni ai vari tornei di qualsivoglia matrice e valore, oltre naturalmente agli eventuali match giocati in campo europeo o in coppa nazionale.

Eppure durante queste settimane ho scoperto che per il derby di Milano non è più così. Se si consulta l’Almanacco Panini, ed escluse le partite della stagione attuale,  si conteggiano in totale 273 stracittadine milanesi, con 106 vittorie del Milan, 72 pareggi e 95 vittorie dell’Inter . Contando il derby del novembre scorso dunque il totale delle vittorie del Milan sale dunque a 107.

Ma con mia grossa sorpresa la Gazzetta dello Sport ha ribaltato questo vetusto modo di intendere la statistica e ha tolto di mezzo tutti gli incontri giocati prima del girone unico, le amichevoli e i tornei, limitandosi solo al calcolo delle partite giocate in Serie A, in Champions’ e in Coppa Italia.

Prima di stasera così l’Inter conduceva per 71 vittorie a 70, molto casualmente.

Prima di invitare i colleghi della Gazzetta a pareggiare il conto, li inviterei ad aggiornare le statistiche togliendo di mezzo le partite giocate con l’Ambrosiana, che fu figlia della fusione, avvenuta nel 1928, fra l’Inter e l’U.S. Milanese.

Il totale dunque vedrebbe in testa il Milan per 67 a 55.

Se la matematica non è un opinione sarebbe il caso di aggiornarle, queste statistiche.

 


Il metamatico e i matematici

Dai tempi di Metamatic, nell’ormai lontano 1980, John Foxx è stato considerato unanimemente come uno dei maggiori punti di riferimento nella storia del pop elettronico.

Quel disco fu uno dei primi che furono composti e realizzati usando totalmente il sintetizzatore e risulta tuttora come uno dei capolavori più completi nonchè come uno dei precursori del musica elettronica a venire, al fianco, per esempio di Replicas e The Pleasure Principle di Gary Numan.

La carriera di Foxx, dagli esordi post-punk con gli straordinari primi tre album degli Ultravox!, si è sempre evoluta e ha fatto della ricerca la sua forza, passando attraverso l’ambient, electroclash,  dance e il dream-pop, trovando quasi spesso risultati di grande valore.

Durante quattro decenni di lavori, inoltre, si è pure distinto per aver stretto collaborazioni sempre proficue, dal musicista elettronico Louis Gordon col quale ha co-firmato ben cinque dischi, al compositore ambient Harold Budd, al chitarrista icona del dream-pop ed ex Cocteau Twins, Robin Guthrie sino a Steve Jansen e Steve D’Agostino coi quali ha realizzato l’ultimo A Secret Life.

L’ultima collaborazione che vede protagonista Foxx è fra le più curiose, come curioso è il personaggio che accompagna questa sua nuova avventura. Il suo nome è Benge, alias Ben Edwards, ed è un musicista elettronico inglese che ha la strana abitudine di nominare i suoi pezzi come gli strumenti che utilizza, tutti generi di sintetizzatori che sono usciti dagli anni 60 in poi, e dei quali Benge è assiduo collezionista.

Molto stimato da Brian Eno, che ha fortemente lodato il suo ultimo lavoro (Twenty Systems, 2008), Benge si mette a capo di un collettivo di musicisti che definisce The Maths e realizza con Foxx, Interplay, uscito il 21 marzo a nome di John Foxx & The Maths, per l’etichetta Metamatic.

Il disco si caratterizza per una sorta di spirito duale che lo attraversa, dove da un lato spiccano le tipiche dinamiche foxxiane in un misto di armonia melodica e aggressività elettronica e dall’altro vengono fuori le stranezze del suo curioso compagno che, lasciati i panni di compositore ambiente, si getta a capofitto sulla sua passione di collezionista vintage, facendo sfoggio di sonorità demodé.

Il risultato di questo insolito connubio è comunque notevole e le aspettative degli appassionati non verranno deluse. Certo chi cercherà innovazioni dovrà recarsi altrove, ma c’è da dire altresì che la ricerca di innovazione è spesso una scusa sterile per snobbare validi lavori come questo o altri ancora.

Il pezzo d’apertura, Shatterplay, è sorprendemente veloce e oscuro, tale da poter ingannare gli sviluppi successivi del lavoro. Un brano comunque potente e vigoroso, probabilmente più figlio di Benge che di Foxx.

L’ammiccante e ironica Catwalk ribalta totalmente l’atmosfera, restituendone un insospettabile ritmo danzereccio. Evergreen possiede invece le classiche caratteristiche dei brani del Foxx elettronico degli ultimi anni (in particolare del periodo con Gordon): veloce, stimolante, ritmato e abbellito dai pirotecnici strumenti di Benge.

Mira Aroyo dei Ladytron è l’ospite e co-autrice di Watching A Building On Fire, una canzone che come le precedenti recita lo stesso spartito un po’ vintage e un po’ neo-foxxiano, con la diversa leggerezza e soavità che le conferisce la guest star.

La title-track s’impone per contrasto con un ritmo cadenzato e riflessivo, mentre sonorità house traspaiono da Summerland.

Uno dei pezzi più riusciti dell’album è senza ombra di dubbio è The Running Man, nel quale sin dal titolo si riconosce il riferimento all’alter ego foxxiano, quel Quiet Man al quale l’artista inglese ha pure dedicato un libro. Il brano, col suo ritmo travolgente e senza pausa, è una sorta di versione elettronica e modernizzata del suo classico dai tempi degli Ultravox, Quiet Men.

A Falling Star è una densa elettro-ballata che porta il marchio inconfondibile dello spirito di Foxx e dove si nota meno la presenza del nerd Benge, al contrario della successiva Destination nella quale è facile riconoscere le influenze cupe del sound di Sheffield, fra Cabaret Voltaire e Clock Dva, un brano sicuramente potente e convincente.

La conclusiva The Good Shadow è incantevole per le atmosfere liquide e delicate ed è probabilmente il risultato fra i più convincenti dell’intera operazione che vede Benge e i suoi matematici a confronto dell’icona, il metamatico Foxx che è partito dal passato per rincorrere il futuro, al contrario del suo collaboratore che è nel passato che ha ricercato il futuro.