Archivi categoria: Sport

Quousque tandem Allegri?

il perplesso allegri

“Quosque tandem abutere Allegri, patientia nostra? (Fino a quando, Allegri, abuserai della nostra pazienza?)” è una citazione ciceroniana con la quale si conclude una lettera inviata alla Gazzetta dello Sport da un tifoso milanista. A lui ha risposto il vice direttore Franco Arturi, un grande esperto di basket, il quale però spesso sul calcio snocciola con una certa boria tesi sin troppo semplicistiche.

Ma questo non è stato il caso. Arturi infatti, rispondendo al lettore, esprime un’opinione che nessun giornalista o quasi, nel corso di questi mesi terribili per il Milan, non ha avuto il coraggio di esprimere.  “Il tema realisticamente è – scrive Arturi – da questo organico ci si può attendere che giochi almeno come l’Atalanta,  il Parma o il Catania?”. Perché, sono in molti a dimenticare che la squadra di Colantuono, come quelle di Donadoni e Maran, nè l’anno scorso nè adesso avevano in squadra Ibrahimovic e Thiago Silva, eppure, sia nella stagione passata che in quella corrente,  giocano meglio del Milan e adesso lo sopravanzano in classifica.

Nel corso di un anno e mezzo Emanuelson, arrivato come terzino nel gennaio del 2011,  ha giocato come mezzala (destra!), trequartista, seconda punta.  Passato da seconda scelta a titolare a terza scelta a titolare, senza mai essere veramente decisivo, è il simbolo della confusione che regna in testa ad Allegri e al suo staff tecnico.

Quattordici formazioni diverse in campo in sedici partite ufficiali, quasi mai la stessa difesa in campo, dove è stato messo più volte l’impresentabile, per condizioni fisiche e mentali, Mexés, il giocatore più pagato della rosa visto che come Robinho (un ectoplasma da almeno un anno) e Pato (un mistero perso dietro ai suoi malanni tecnico-muscolari-sentimental-esistenziali), percepisce uno stipendio annuale da 4 milioni netti.

Evidenti sono le colpe della società che ha smantellato l’asse portante (Thiago-Van Bommel-Ibra) della squadra che solo un anno e mezzo vinceva uno scudetto a mani basse, ma a fronte di un drastico ridimensionamento degli obiettivi e del tasso tecnico della rosa, dov’è la mano del tecnico? Si intravedono soltanto improvvisazione (difesa a tre, centrocampo a cinque, attacco a zero), incertezza e nessun punto fisso.

Emblematica in tal senso è stata la partita di domenica, persa nettamente a San Siro contro la Fiorentina, una squadra con un tecnico nuovo e con 9 giocatori su 11 arrivati nel corso del mercato estivo. Montella in pochi mesi ha dato un’identità alla squadra, Allegri nello stesso tempo non ha trovato nessuna soluzione e nessuna chiave tattica per mettere assieme i suoi giocatori che, seppur male assemblati, avrebbero le possibilità per rendere meglio di Catania, Cagliari e Torino, il cui monte stipendi è inferiore almeno di 2/3 rispetto a quello dei rossoneri.

Il livello di gioco (o non gioco) espresso dalla squadra di Allegri farebbe supporre non solo che il Milan possa rischiare di essere invischiato nella lotta per la non retrocessione, ma che farebbe fatica persino in una serie inferiore, dove la maggior parte dei tecnici, in mancanza di valori tecnici elevati, sopperisce alle carenze dando alle proprie squadre un gioco e delle certezze.  La cosa curiosa di questa vicenda è inoltre che lo stesso Allegri in serie C con il Sassuolo e in A con un Cagliari dalle ambizioni limitate aveva fatto intravedere anch’egli questa possibilità.

Allora è evidente che il tecnico livornese, spogliato dei suoi Ibra e dei suoi Thiago, non sia in grado di gestire una squadra di livello superiore, dove le pressioni sono notevolmente più alte e le aspettative estremamente diverse.

Oggi il leader maximo Berlusconi ha fatto visita alla squadra, strombazzando al solito slogan vuoti (mai più la difesa a tre, Montolivo è il nuovo Pirlo, etc.) e affermando per l’ennesima volta che Allegri ha la sua fiducia (una fiducia ben ripagata da uno stipendio di 2,5 milioni all’anno).  Tanto arriverà il Salvatore che a gennaio porterà in dote Papadopoulos e Dossena che risolveranno tutti i problemi.

La verità, assodata dai fatti, è che Allegri sta dimostrando di non essere degno di questa fiducia (e di questo stipendio) e che la società, oltre ad aver smantellato una squadra da vertice, non ha voglia di assumersi la responsabilità di mettere nel libro paga un altro allenatore. Meglio piuttosto andare alla ricerca di un prestito o di un parametro zero, o di qualche mediocre mestierante dallo stipendio modesto, come le ridotte ambizioni di questo triste Milan e del suo perplesso allenatore.


Saluti e baci

Mentre ancora in casa Milan non si è del tutto esaurita la sbornia delle celebrazioni dovuta alla conquista dello scudetto, già da qualche settimana si comincia a fare i conti con il futuro, legato alle spinose questioni del rinnovo dei contratti e del riscatto delle varie comproprietà,  prima di passare al vero e proprio mercato, che in entrata ha già visto gli ingressi degli svincolati Taiwo e Mexés.

L’ altro ieri Pirlo ha dato ufficialmente l’addio al Milan dopo dieci anni di successi. Il grande centrocampista bresciano è stata la chiave delle vittorie del ciclo ancelottiano e uno dei punti cardine dell’Italia di Lippi campione del mondo a Berlino, ma negli ultimi tempi, per acciacchi, età e collocazione in campo, ha perso sempre di più il suo posto nella squadra di Allegri, che ha deciso di farne a meno per il futuro. Per la verità dopo la vittoria della Champions’ nel 2007,  raramente Pirlo ha giocato ai suoi livelli abituali e più che un punto di forza è stato spesso un simbolo della vulnerabilità degli ultimi anni bui rossoneri. Inevitabile dunque la separazione. Il suo passaggio alla Juventus ha scatenato la maggior parte dei critici che hanno biasimato la mossa di Galliani. Personalmente credo che l’addio è arrivato nel momento giusto, perchè Andrea con molta umiltà ha capito che non era il caso di insistere a elemosinare un contratto e un futuro da protagonista senza la convinzione precisa dello staff tecnico e della società.  Quel sussurrato “Mi rimpiangerete!” riferito ai microfoni dei giornalisti all’uscita dagli uffici di via Turati suona quasi più come un amaro auspicio che una vera rivalsa. Anche perchè il passaggio a questa Juventus suona un po’ come una retrocessione, più che una vendetta futura. A meno che non sia l’uomo adatto per colmare 25 punti di distanza in campionato.

L’altro addio che sembra si stia per compiere in casa Milan è quello che vede protagonista Clarence Seedorf. “In 25 anni di carriera ho incontrato un solo giocatore che ha chiesto di apporre la clausola del posto da titolare nel contratto, era Klinsmann, e ovviamente rifiutai”. Così Galliani avrebbe detto a margine della presentazione di un libro fotografico, parlando del centrocampista orange. Questa battuta segue a uno scambio di battute e frecciate fra Seedorf, la società e il tecnico che sembrano preludere a un addio, nonostante le continue rassicurazioni che tende a fare lo stesso ad rossonero. La verità? Seedorf non a caso è uno dei giocatori più odiati dagli stessi tifosi milanisti per il suo atteggiamento supponente, per il suo egoismo e per la sua assoluta mancanza di umiltà e di rispetto verso i suoi stessi compagni, i sostenitori rossoneri e adesso anche la società. Da anni gioca bene un tot di partite all’anno che sono un numero risibile rispetto a quelle giocate. Durante questa stagione ha assaggiato più panchina che campo, è tornato titolare per l’ultima parte del campionato, dove onestamente ha fatto bene, ma non abbastanza per pretendere di essere titolare a 35 anni in una squadra che nonostante il titolo ha bisogno di rinnovarsi. Ad Allegri e Galliani spetta l’ultima parola, i tifosi hanno deciso: da quattro anni almeno Clarence non è più decisivo e spesso è stato dannoso. Gli unici a remare dalla sua parte sono alcuni giornalisti che continuano inspiegabilmente a lustrargli le scarpe.  Bene, penso che anche per Seedorf sia arrivato il momento dell’addio, e credo allo stesso modo di non essere affatto in minoranza.

Addio Andrea e Clarence, saluti e baci.


Pañolada solitaria

In Spagna, molti di voi lo sapranno, negli stadi c’è la consuetudine di sbandierare fazzoletti bianchi per esprimere dissenso o protesta, sia esso nei confronti dell’arbitro o della propria squadra. Questo curioso modo di fare, che ultimamente sta prendendo campo anche in Italia, viene definito col nome di pañolada.

Il fattore fondamentale che fa sì che la pañolada si possa definire tale o comunque realizzarsi è che dunque si deve agire in tanti o in ogni caso in gran numero, ed è ovvio che una persona sola non la può fare.

José Mourinho con i suoi ormai illustrissimi por qué, invece è riuscito a compiere pure questa impresa. Perché nonostante l’appoggio che la società gli ha dato per la sua pesante reprimenda contro l’arbitro Stark,  il Barcellona, l’Uefa e persino l’Unicef, la sua immagine risulta sempre più lontana da quella del club (una volta) più prestigioso del mondo.

In più di cento anni di storia non si era mai visto un Bernabeu preda di conquista, con il Real Madrid a giocare con dieci uomini dietro la linea della palla, senza riuscire a imbastire un minimo contropiede e assistere impotente all’esasperante possesso palla dei giocolieri catalani. Vero è che senza l’espulsione di Pepe (uno stopper schierato a centrocampo) molto probabilmente il Barcellona non avrebbe sfondato il muro madridista, ma altrettanto vero che in una doppia sfida  non si capisce in che modo il Real sarebbe riuscita a cavarsela rinunciando totalmente a giocarsela. In casa.

La cosa paradossale è che l’ex Special One (a Madrid nonostante una Copa del Rey vinta in modo avventuroso non credo lo considerino più tale) in panchina aveva tre centravanti di livello mondiale (Benzema, Higuain e Adebayor, il meno valido dei tre, l’unico a essere entrato) e un pallone d’oro come Kakà.

I tifosi delle merengues di antico stampo (capeggiati dall’illustrissimo presidente onorario Di Stefano) prendono sempre più le distanze dal tecnico portoghese, criticato sempre più aspramente e mai realmente entrato nella filosofia e nel cuore della mentalità madrileña.

La barzelletta delle “zero responsabilità” invece pare rimanere tale e lo stesso Mourinho non sembra crederci più di tanto, visto che nella sconfitta successiva casalinga di campionato con il non irreprensibile Saragozza, ha recitato il mea culpa.

I giocatori stessi cominciano a storcere il naso, dai panchinari di lusso sopracitati sino ad arrivare a Cristiano Ronaldo, clamorosamente escluso dal match di Liga.

Mourinho insomma procede nella sua crociata sempre più solo, ma la sua abilità di ruffiano continua a fare breccia nel cuore dei tifosi interisti, la casa giusta per uno come lui.


Terza età

Umberto Veronesi è stata una delle menti più illuminati e degli scienziati italiani più apprezzati al mondo, ha salvato migliaia di vite come oncologo, ha ricevuto ben 12 lauree honoris causa e dirige dal 1994 l’Istituto Europeo di Oncologia.

É stato inoltre uno dei ministri della Salute più competenti di questi ultimi anni e solo la brevità del suo mandato (14 mesi) gli ha impedito di agire con più decisione e fare delle riforme necessarie per il sistema sanitario italiano.

Tutto questo per ribadire la profonda stima che merita quest’uomo, che ha passato da un pezzo gli 85 anni.

Ma c’è qualcosa in queste grandi menti, che scatta appena si esauriscono le batterie dell’illuminazione. E parte, come in ogni altro comune essere umano, la stanchezza e il rallentamento dovuto all’arrivo incessante della terza età.

Non mi spiego altrimenti la sua battaglia agguerrita (da oncologo!) a favore dell’istituzione delle centrali nucleari in Italia, in qualità di presidente dell’Agenzia per la sicurezza nucleare.

«Senza nucleare l’Italia è un paese morto», afferma Veronesi, che in una recente intervista a La Stampa si dice stimolato dalla conflittualità e di conoscere alla perfezioni i metodi di prevenzioni e di cura dovuti in caso di contaminazioni radioattive. Che non ci sarebbero comunque se queste centrali non verrebbero mai alla luce.

Quando si parla di scorie, dice che non ci saranno problemi perchè i siti per lo smaltimento non toccheranno l’Italia. Problemi di altri, insomma.

Ma della sua battaglia pro-nucleare di parla da mesi, dalla sua nomina avvenuta a novembre.

L’ultima uscita che mi ha profondamente sconcertato riguarda invece il ciclismo e il doping.

Nell’intervista concessa ieri alla Gazzetta dello Sport, si lancia in lodi sperticati per questo sport bistrattato.

«Date fiducia al ciclismo, garantisco io» afferma Veronesi. Ovviamente non è questo che mi sconcerta. Alla domanda del giornalista sul doping, il luminare prosegue: «Me ne sono occupato (di doping, ndr) anni fa come Ministro della Sanità senza trovare la via d’uscita. Sinceramente non ho una soluzione. Credo che sia una malattia sociale legata all’abuso di farmaci. Viviamo in un mondo che si aggrappa alle medicine anche quando non servono. A volte mi chiedo se non converrebbe liberalizzare il doping mettendo al bando solo ciò che fa davvero male (che cosa? l’eroina, la cocaina, la metanfetamina? ndr). Prendete l’Epo: chi assicura che faccia male? (forse qualsiasi ematologo? ndr). Chi va in montagna per 15 giorni ottiene gli stessi effetti (se lo dice il professore, ndr). Se il problema è etico e vogliamo mettere tutti sullo stesso piano, si può pensare di liberalizzare. Da liberale convinto, ho un approccio meno latino e più pragmatico: noi abbiamo il diritto, non il dovere alla salute».

Spaventoso. Non ho parole per questa sua chiosa finale, un oncologo di fame mondiale che esprime un concetto simile mi dà il voltastomaco.

Blanda la replica di Petrucci, presidente del Coni, assente quella di Pier Bergonzi, il giornalista che l’ha intervistato.

Forse per rispetto alla terza età galoppante di Veronesi.


La teoria dell’eterno ritorno

A vederlo a prima vista non si direbbe proprio, a sentirlo parlare e a conoscerlo nemmeno tanto, ma dev’essere senz’altro così.

Il suo carattere burbero nasconde invece, evidentemente, un profondo travaglio interiore che lo rende introspettivo e filosofo, che agisce per non pensare troppo.

Sto parlando di Maurizio Zamparini e del suo ascendente nietszcheano, perchè di altro non si può parlare se non della sua infinita coazione a ripetere che perseguita a eseguire cacciando e richiamando un allenatore dopo l’altro.

Nell’esporre la teoria dell’eterno ritorno, Nietszche afferma che: «Tutte le cose diritte mentono. Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un circolo­­­­» e in Così Parlo Zarathustra sviluppa in maniera più specifica il pensiero secondo il quale tutto ciò che è stato vissuto lo sarà in futuro e viceversa. Evidentemente è per non sfuggire a questo arcano dogma del filosofo tedesco che Zamparini non smentisce mai se stesso.

L’ultimo capolavoro del presidentissimo palermitano è infatti, come già ampiamente noto, l’allontanamento di Serse Cosmi dopo soli 35 giorni alla guida del sodalizio rosanero e la conseguente richiamata di Delio Rossi, a sua volta esonerato poco più di un mese fa.

«Ho richiamato il vecchio medico» asserisce con ironia il plenipotenzario proprietario del Palermo, fra ironia e autocompiacimento. Cacciato per un 0-7 casalingo e richiamato dopo 0-4 esterno, sperando che il buon Delio, nella prossima sconfitta abbia almeno l’onore di segnare almeno una rete ed evitare così un nuovo licenziamento.

«Credo che come associazione allenatori dovremmo fare un monumento a Zamparini, intanto perché ha dato un altro stipendio e poi perché, nel frattempo, ha permesso a Rossi di riposarsi e di recuperare energie, prima di rimetterlo al lavoro», afferma con sagace ironia Renzo Ulivieri, presidente dell’ Associazione Allenatori.

In venticinque anni in cui è nel mondo del calcio Zamparini ha avuto fra le mani i migliori tecnici e il solo Novellino è riuscito a scampare il licenziamento, forse soltanto perchè ha avuto l’occasione di fuggire in tempo.

La verità più vera e più amara è che tifosi palermitani, ammaliati dagli strombazzi del loro presidente che parla sempre (e a vanvera) di grandi obiettivi, con questa (non)programmazione sono rassegnati a vedere una squadra che sarà spesso bella, giovane e divertente, ma che al momento di spiccare il volo si vedrà le ali tarpate.

Non dalla sfortuna, non dagli arbitri, e nemmeno dalle squadre più ricche e più forti. Ma dal suo presidente.

Al quale gli stessi tifosi saranno comunque estremamenti grati per averli tirati fuori da decenni di anonimato e aver portato i rosanero nell’èlite nazionale.

Consapevoli ugualmente che con Zamparini più di così non è possibile salire.


Opinioni matematiche

Terminate le due settimane più lunghe per i tifosi di Milan e Inter, con la serata che ha segnato il trionfo dei rossoneri per tre reti a zero, mettendo a frutto una supremazia interrotta solo a tratti dalle fiammate nerazzurre, quello che rimane, oltre al rafforzato primato degli uomini di Allegri, è una considerazione curiosa che viene da alcuni dati statistici pubblicati in questi giorni dalla Gazzetta dello Sport.

I giornalisti della rosea sono stati stremati forse più degli stessi tifosi dalla lunga attesa e hanno cercato di riempire questo lungo intervallo con una serie interminabili di racconti, opinioni, pronostici e, appunto, statistiche.

Le statistiche di tutti i derby contengono spesso al loro interno tutta la storia delle squadre coinvolte, a partire dai tempi lontani della fondazione per arrivare a quelli di oggi. Vengono così contemplate univocamente anche gli incontri che hanno preceduto l’istituzione del campionato a girone unico (creato nel 1929-30), le amichevoli, le partecipazioni ai vari tornei di qualsivoglia matrice e valore, oltre naturalmente agli eventuali match giocati in campo europeo o in coppa nazionale.

Eppure durante queste settimane ho scoperto che per il derby di Milano non è più così. Se si consulta l’Almanacco Panini, ed escluse le partite della stagione attuale,  si conteggiano in totale 273 stracittadine milanesi, con 106 vittorie del Milan, 72 pareggi e 95 vittorie dell’Inter . Contando il derby del novembre scorso dunque il totale delle vittorie del Milan sale dunque a 107.

Ma con mia grossa sorpresa la Gazzetta dello Sport ha ribaltato questo vetusto modo di intendere la statistica e ha tolto di mezzo tutti gli incontri giocati prima del girone unico, le amichevoli e i tornei, limitandosi solo al calcolo delle partite giocate in Serie A, in Champions’ e in Coppa Italia.

Prima di stasera così l’Inter conduceva per 71 vittorie a 70, molto casualmente.

Prima di invitare i colleghi della Gazzetta a pareggiare il conto, li inviterei ad aggiornare le statistiche togliendo di mezzo le partite giocate con l’Ambrosiana, che fu figlia della fusione, avvenuta nel 1928, fra l’Inter e l’U.S. Milanese.

Il totale dunque vedrebbe in testa il Milan per 67 a 55.

Se la matematica non è un opinione sarebbe il caso di aggiornarle, queste statistiche.

 


Sbatti il mostro in prima pagina

Difendere la persona e le gesta di Mario Balotelli diventano imprese sempre più improbe.

Dal suo folgorante debutto in maglia interista infatti, il giovane attaccante di colore, sembra che faccia di tutto per godere di cattiva fama e disperdere il suo immenso talento.

Destinato a essere per anni la bandiera del nuovo corso nerazzurro e quella del Rinascimento della nazionale italiana, sempre più scevra di talenti, il ghanese di Brescia si avvia ogni volta di più a disperdere le tracce del suo enorme potenziale con i suoi comportamenti inspiegabili.

Dalle liti con Mourinho a quelle coi compagni, Materazzi in testa, alle sfide lanciate con disprezzo ai propri tifosi, con la maglia del Milan indossata in televisione e quella dell’Inter lanciata per terra per sfogare la sua frustrazione del suo scarso utilizzo e dei fischi ricevuti. Quella sera l’Inter battè il grande Barcellona di Guardiola e Messi, ma Balotelli, pur giocando poco e male, riuscì comunque a guadagnarsi la scena. Non in campo, però.

Il suo avvento al Manchester City del suo primo mentore Mancini è stato finora un sonoro fallimento. Debutto con gol e infortunio a Timisoara, ricadute, operazioni, rientro, espulsioni, liti, nuovo infortunio e nuova espulsione. Pare che il buon Mario non riesca a darsi pace e la dia vinta all’immaturità della sua pur giovanissima età, che si manifesta anche coi suoi comportamenti poco edificanti con le donne.

L’ultima bravata che l’ha portato alle cronache è davvero sconcertante: affacciato dal suo appartamento di Manchester, che dà sul campetto dove si allenano i ragazzi del City, avrebbe scagliato delle freccette contro i giovani calciatori. Scoperto, si giustifica dicendo che l’ha fatto per “noia”.

Il C.t. della nazionale Prandelli, gli sta quasi per concedergli il benservito, chiudendogli la porte dell’azzurro a soli vent’anni.

Eppure in tutto ciò mi pare che a Balotelli manca qualcosa (oltre a qualche buon chilo di materia grigia e maturità).

Nessuno mai prende le sue difese, pare che non ci siano giustificazioni, che va sempre peggio, che non migliora mai.

La mia sensazione è che sì, il giovane sia piuttosto in debito con la ragione, ma che qualunque cosa faccia goda di un’amplificazione esagerata rispetto alla realtà dei fatti e che, a volte, sembra quasi essere una vittima della stampa oltre che di se stesso.

L’episodio della partita col Barcellona in tal senso è emblematico: perché mai i tifosi interisti lo hanno sonoramente insultato e fischiato in quel modo al termine di una partita vinta trionfalmente? La sua reazione, agli occhi dei suoi sostenitori, è stata inconcepibile, ma allo stesso modo lo è stata quella contestazione personalizzata che l’ha indotto a compiere quel gesto dissacratorio.

Tornando poi a questa storia delle freccette, che gli ha fatto meritare la prima pagina della Gazzetta dello Sport, viene fuori un particolare inquietante.

Le prime tre pagine sono dedicate a questo misfatto, con le dichiarazioni di Prandelli che stigmatizzano i suoi comportamenti e gli lanciano un ultimatum, il riassunto di tutte le sue malefatte, le reazioni degli inglesi che non vedono l’ora di liberarsi di lui.

E in questo contesto, a pagina 3, un piccolo trafiletto, siglato da Giancarlo Galavotti, il corrispondente inglese.

Qui viene fuori che nella società del City ci sarebbe una talpa che avrebbe fatto trapelare l’accaduto, rivelato al giornale The People (uno dei soliti tabloid spazzatura) che poi ha pompato a proprio piacimento la notizia.

Il fatto risalirebbe poi ad almeno due settimane fa e la freccetta lanciata è stata una sola, e non ha colpito nessuno.

Una freccetta vecchia di quindici giorni e lanciata a vuoto che però è stata sufficiente a far sbattere il mostro Balotelli ancora una volta in prima pagina.

Tanto i trafiletti non li legge nessuno.


Com’era verde la mia valle

Com’era verde la mia valle. Così recita il titolo di uno dei più famosi film di John Ford, tratto dall’omonimo romanzo del gallese Richard Llewellyn.

E com’era verde ieri sera lo stadio Olimpico di Roma, in occasione del posticipo serale fra Lazio e Palermo, che ha avuto un unico indiscusso protagonista, nel bene e nel male: l’attaccante calabrese dei biancazzurri Beppe Sculli.

Sculli ha infatti siglato nei primi venti minuti la doppietta che ha deciso l’esito del confronto, terminato due a zero per i padroni di casa, ma poi ha dovuto abbandonare il terreno di gioco per una misteriosa quanto inquietante allergia.

Eh sì, perchè il verde furoreggiante della valle dell’Olimpico, altri non era che non una folle verniciata da parte degli addetti alla manutenzione del campo che hanno trovato geniale (e non sono gli unici, ahinoi) l’idea di colorare di verde la parti del terreno prive di erba, per non disturbare l’effetto cromatico dei tanti spettatori del posticipo serale.

Quella che è un’ennesima dimostrazione del sacrificio del dio pallone innanzi all’altare della dea tv getta veramente nello sconforto, nella delusione e nella tristezza, anche qui per l’ennesima volta, i milioni di appassionati di calcio che si vedono constantemente buggerati da questi teatrini italiani che continuano a sacrificare tutto, anche la salute degli atleti, pur di continuare nei loro ridicoli affari e immolarsi preda di Sant’Euro.

Ma non solo. C’è anche lo Stato dietro questa ultima assurdità del calcio e dello sport italiano, con questo continuo rinvio di un’adeguata legge sugli stadi che consentirebbe alle società italiane di costruire e gestire in maniera autonoma i propri campi da gioco, come avviene del resto in tutta Europa.

Dove, al contrario di qui da noi, la stragrande dei campi brulica di meravigliosi campi verdi. Senza vernice.

E non basterebbe verniciare campi come il Ferraris di Genova che sono in condizioni a dir poco penose, per la salute degli atleti e la salvaguardia dello spettacolo.

Una cosa sconcertante è poi constatare come proprio dello Stadio Olimpico non è lo Stato,  o comunque un Ente come il Comune, la Provincia o la Regione, a esserne proprietario e gestore, ma è il Coni, il comitato olimpico italiano, che in nome dello sport dovrebbe essere il primo a tutelare il principio di salute degli atleti e quello di salvaguardia dello spettacolo. Cosa che a quanto pare non viene minimamente messa in pratica.

Il quale Coni si difende dicendo che la vernice spruzzata sul terreno dell’Olimpico fosse anti-allergica. Ma non per Sculli, evidentemente.

Un ultima riflessione mi viene da uno recente studio fatto circa la relazione fra i tantissimi casi di Sla nel mondo del calcio e l’uso di diserbanti e concimi chimici per i campi di allenamenti e gioco. Questo studio ha ipotizzato che dietro le cause di questo anormale numero di calciatori colpiti dal morbo di Gehrig ci sia proprio l’uso dissennato di questi prodotti.

Forse perchè all’epoca non si usava la vernice.

Meditate gente, meditate.

 


Fair Play

Chissà cosa ne avrebbe detto lui, se fosse capitato ad altri o alla sua stessa squadra.

Increscioso episodio quello capitato ieri a Foggia, quando sul finire della partita fra Foggia e Gela, valida per la Prima Divisione della Lega Pro, si è scatenata una vera e propria rissa, con tanto di caccia all’uomo, sotto gli occhi pressocché inebetiti di arbitri, giornalisti e spettatori.

Il fattaccio avviene intorno al 39′ della ripresa, quando, col Foggia sotto 2-1, i rossoneri pugliesi allenati da Zeman, pervengono al pareggio usufruendo di una rimessa non restituita.

La palla, infatti, era stata messa fuori da un giocatore del Gela, per permettere i soccorsi all’infortunato Salamon del Foggia.

Al momento del pareggio si è scatenato uno spaventoso parapiglia, con i gelesi che chiedevano la restituzione del gol e i foggiani che si ritrovavano vittime di una caccia all’uomo, alla quale rispondevano colpo su colpo.

L’arbitro non ci ha capito granché, e, a fronte dei dieci calciatori coinvolti, ne ha espulsi soltanto due, e dopo una sospensione di quasi otto minuti, ha chiuso con tre minuti di anticipo la gara.

Ma come ha commentato il fattaccio Zdenek Zeman, il paladino degli sportivi, dei valori dello sport, colui il quale (secondo il suo stesso parere), paga e ha pagato sulla sua pelle, il fatto di credere fermamente in questi valori e di scagliarsi contro i potenti, il Palazzo, il potere occulto e così via dicendo?

«Non bisognerebbe gettare la palla fuori, quando c’è un avversario per terra. Si dovrebbe attendere il fischio dell’arbitro». Così dice il tecnico boemo, il quale si auspica pure «di mettere fine a continui bluff, perché se in una partita gli avversari cascano a terra venti o trenta volte,  o non sono normali o c’è qualcosa che non va».

Quindi aggiunge di non essere «felice per quanto successo ma al tempo stesso convinto che i suoi ragazzi hanno reagito come potevano all’atteggiamento esasperante degli avversari». Giustificando così il vile atto dei suoi calciatori.

«Alcuni giocatori del Gela hanno chiesto ai miei di fargli fare un altro gol, subito dopo il nostro pareggio. Io resto dell’idea che a vincere dev’essere chi merita ». Ovvero di chi segna sfruttando una rimessa non restituita, consegnata all’avversario che aveva messo palla fuori per consentire le cure a un giocatore dell’altrui squadra.

Avercene di sostenitori dello sport  e della lealtà come Zeman.


Italia anno zero

La sconfitta casalinga di ieri sera dell’Inter contro il Bayern Monaco apre lo squarcio definitivo sulla situazione delle squadre italiane in Europa.

Infatti mai nella storia del calcio italiano nelle competizioni Uefa si era mai aperto (o chiuso) un turno di Champions’ con tre sonore disfatte interne che pregiudicano seriamente la qualificazione di tutti e tre i team, Milan, Roma e Inter in ordine di apparizione.

Se la sconfitta della Roma risulta la più clamorosa e inaspettata, contro gli ucraini dello Shakthar (peraltro inattivi da tre mesi, causa riposo invernale) ed è anche dovuta a una crisi inarrestabile che è esplosa domenica a Genoa con le dimissioni di Ranieri, nondimeno disastrose e inopinate lo sono state quelle delle squadre milanesi, avvenute, peraltro in circostanze molto simili fra loro e con avversari, sicuramente duri, ma che in altre occasioni sarebbero stati alla loro portata.

Il Milan col Tottenham ha pagato lo scotto dell’avvio e delle assenze illustri a centrocampo, ed è stato trafitto a pochi minuti dal termine su azione di contropiede, l’Inter si è affidata alle sue solite fiammate improvvise senza mai dare continuità al proprio gioco ed è stata continuamente in balìa degli avversari, che solo all’ultimo minuto, dopo aver rischiato, hanno trovato il varco giusto, sfruttando un’incertezza del portiere Julio Cesar.

Se a questo sommiamo lo zero a zero casalingo del Napoli contro il Villareal, notiamo che le prime tre in classifica del campionato italiano non hanno realizzato una sola rete nei loro impegni casalinghi, un altro dato che certifica in modo inequivocabile la caduta verticale della qualità nella nostra Serie A.

Solo il Borussia Dortmund infatti, fra le squadre ai vertici dei rispettivi principali campionati del continente (Premier League, Liga, Bundesliga, Ligue 1) non è presente fra i team impegnati nelle competizioni internazionali e queste hanno tutte le possibilità di andare oltre.

In Inghilterra abbiamo il Manchester United che ha impattato un nullo a Marsiglia, l’Arsenal che battuto in casa 2-1 nientemeno che il Barcellona in una delle partite più memorabili di questa stagione e forse della storia della Champions’, il City che aspetta stasera di ricevere l’Aris Salonicco dopo lo zero a zero esterno dell’andata in Europa League, il Tottenham corsaro a San Siro e il Chelsea che ha messo sotto il Copenhagen per 2-0 in trasferta.

In Spagna oltre al Barcellona c’è il Real Madrid uscito dalla Gerland di Lione con un 1-1 denso di rimpianti, e il Valencia bloccato in casa dai tedeschi dello Schalke 04 (pessimi in campionato ma ottimi in Europa) e il Villareal che attende il Napoli.

E situazioni decisamente migliori delle nostre hanno le francesi e le tedesche (oltre allo Schalke e al Bayern vincitore sull’Inter c’è anche il Leverkusen che ha vinto 4-0 sul campo degli ucraini del Metalist).

Ed è inutile rifugiarsi nella sterile polemica delle squadre anziane e senza giovani, come acutamente ha fatto osservare Alessandra Bocci della Gazzetta dello Sport su Twitter, la verità più profonda è un’altra.

La verità che negli anni 80 e 90 tutti i campioni venivano da noi, ma non solo nelle grandi squadre.

L’Udinese poteva contare su Zico (non giovane acerbo come Pastore per esempio), il Pisa sul centravanti titolare della nazionale olandese Kieft, l’Avellino sul campione del mondo Ramon Diaz, solo per citare alcuni dei nomi che mi vengono in mente.

Adesso i pochi campioni di livello internazionale sono solo appannaggio dei grandi club e la loro disabitudine ai grandi livelli si nota nonappena l’asticella di difficoltà si alza un po’.

E in Europa quest’asticella è bella alta e noi siamo ben lungi dal superarla al momento.

Infine ci sarebbe anche la questione sull’attuale livello dei calciatori italiani, mai così basso da diversi decenni a questa parte, prova ne è che la Nazionale di Prandelli fa continuo ricorso agli oriundi e viene elogiata per aver pareggiato con la Germania, quando in passato sarebbe avvenuto il contrario.

Insomma il declino sembra essere inesorabile e attualmente inarrestabile, io non vedo al momento ricette e formule magiche per migliorare quest’aurea mediocrità, se non una pallida e sempre più flebile speranza e fiducia nel futuro.

Vere sono altresì due cose, che l’Inter è campione in carica (con undici stranieri in campo a Madrid e un tecnico diverso, cosa che si vede sempre di più) e che non tutto è ancora perduto e sarei felice di essere presto smentito dai fatti.

Più dal Milan che dalle altre, ma questo è un altro discorso ancora.